L’autore della “Trilogia di New York” è morto di cancro ai polmoni all’età di 77 anni nella sua casa di Brooklyn
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Era la voce della Grande Mela: Paul Auster, l’autore della “Trilogia di New York”, è morto di cancro ai polmoni all’età di 77 anni nella sua casa di Brooklyn. E così, con l’inizio di maggio, il caso che aveva avuto una parte così importante nella sua scrittura, è entrato definitivamente nella sua esistenza. Aveva pubblicato il suo ultimo romanzo “Baumgartner” l’anno scorso.
Protagonista indiscusso del postmodernismo made in USA, a dicembre di due anni fa gli è stato diagnosticato un tumore ai polmoni per il quale si è sottoposto a chemioterapia presso l’ospedale che lo curava, il Memorial Sloan–Kettering Cancer Center di New York, uno dei centri mondiali per la cura del cancro. Ad annunciarlo su Instagram è stata la seconda moglie, la scrittrice Siri Hustvedt. Strano destino anche questo per un annuncio online, per uno scrittore che aborriva ogni contatto con il mondo esterno, se non il telefono di casa, che nonostante la sua fama planetaria lo rendeva irraggiungibile ai più.
Ha descritto: “La mia solitudine è un desiderio masochista”.
Pochi mesi prima della terribile diagnosi, un’altra tragedia aveva segnato la sua esistenza. Il 26 aprile di quell’anno, suo figlio Daniel morì di overdose all’età di 44 anni. Pochi mesi prima, era stato accusato di omicidio colposo per aver causato la morte della figlia, che aveva appena dieci mesi. Secondo l’autopsia, la bambina era morta per overdose di Fentanyl ed eroina. Il caso non è mai stato definitivamente chiarito.
“Quando una persona è abbastanza fortunata da vivere dentro una storia, da vivere in un mondo immaginario, i dolori di questo mondo svaniscono. Perché finché la storia continua, la realtà non esiste più”. Orgogliosamente ebreo, non sapremo mai se le sue parole gli siano state di conforto nelle tante tragedie della sua vita.
Archie Ferguson in “4321”, in una ragnatela di vite possibili, ci fa capire con una prosa febbrile che il dominio sugli attimi che sconvolgeranno inevitabilmente ogni destino è un traguardo irraggiungibile. Ecco che l’esistenza di questo scrittore, con una prosa toccante e con parole mai (furbescamente) tragiche, eppure finemente struggenti, ha chiaramente contribuito a reificare tutto questo.
Einaudi
Auster è stato anche un prolifico cantore dell’improbabile, attraverso una produzione vastissima, capace di scardinare, se non sovvertire, molti dogmi di genere. Tradotto in italiano da Einaudi, ha esordito con le raccolte di poesie “Unhearth” (1974) e “Wall Writing” (1976), seguite da un’opera teatrale (“Laurel e Hardy vanno in paradiso”, 1977) e “White spaces” (1980), primo testo in prosa che precede “L’invenzione della solitudine” (1982), un originale mix di saggio, narrativa e autobiografia incentrato sul rapporto con il padre, scomparso da poco. Il successo mondiale è arrivato nel 1987 con la “Trilogia di New York” composta da “City of Glass” (1985), “Ghosts” (1986) e “The Locked Room” (1987): una sorta di parodia postmoderna del romanzo poliziesco. E ancora “Moon Palace” (1989); “La musica del caso” (1990); “Leviathan” (1992); “Mr. Vertigo” (1994); “Timbuktu” (1999); “Il libro delle illusioni” (2002); “La notte dell’oracolo” (2004); “Follie di Brooklyn” (2005); “Viaggio allo scriptorium” (2007); “L’uomo nel buio” (2008); “Invisibile” (2009); “Sunset Park” (2010); “Diario invernale” (2012); “4 3 2 1” (2017); “Il ragazzo in fiamme: la vita e l’opera di Stephen Crane” (2021).
Collezioni e saggi
Auster ha pubblicato anche raccolte di saggi come “The Art of Hunger” (1992), “The Red Notebook” (1993), “I Thought My Father Was God: Stories from the Heart of America Collected and Transcribed” (2001) e i testi autobiografici “Making Ends Meet: Chronicle of an Initial Failure” (1997) e “Inside News” (2013). Per il cinema, Auster ha scritto le sceneggiature di “Smoke” e “Blue in the Face”, diretti da Wayne Wang (entrambi del 1995, il secondo in collaborazione con lo stesso Auster), “Lulu on the Bridge” (1998), con Willem Dafoe e Harvey Keitel, e “The Inner Life of Martin Frost” (2007), film rispettivamente del 1998 e del 2007, da lui anche diretto.
Biografia
Nato a Newark il 3 febbraio 1947 da una famiglia ebrea di origini polacche, il padre, Samuel Auster, era proprietario di alcuni edifici a Jersey City; la madre era più giovane di circa 13 anni rispetto al marito e il loro matrimonio, fin dall’inizio, non fu felice. Paul Auster crebbe a Newark, insieme alla sorella, più giovane di lui di circa tre anni e affetta da forme di squilibrio mentale. La situazione familiare segnò la vita dello scrittore, come lui stesso rivelò nel suo libro di memorie “Making Ends Meet”. Fin da ragazzo nutrì una forte passione per la letteratura. Dopo il liceo, iniziò a viaggiare per l’Europa, visitando l’Italia, la Spagna, Parigi e Dublino, la città di James Joyce. Rientrato negli Stati Uniti, si iscrisse alla Columbia University. Nel 1966 incontrò la scrittrice Lydia Davis, che sposò il 6 ottobre 1974 e dalla quale ebbe un figlio, Daniel. Nel 1969, dopo la laurea, Auster si imbarcò su una petroliera e viaggiò per un anno. A Parigi, dal 1971 al 1974, lavorò come traduttore. Rientrato negli Stati Uniti, si stabilì a New York nel 1974. Il suo esordio avvenne con poesie, racconti e articoli pubblicati sulla “New York Review of Books” e sulla “Harper’s Saturday Review”. Dopo il divorzio, nel 1981 sposò la scrittrice Siri Hustvedt, dalla quale ebbe una figlia, Sophie, cantante e attrice. Nonostante la malattia, nel 2023 Paul Auster pubblicò un nuovo e ultimo romanzo, “Baumgartner”.
Solo l’infanzia, al centro delle riflessioni di “4321”, il suo romanzo migliore, ha spiegato, “è un’età malleabile in cui ogni scultura di sé è ancora possibile”. Rileggerlo ora è un’occasione da non perdere, per dire grazie da lettore a Paul Auster che ha saputo scolpire, così a tutto tondo, i suoi tanti personaggi.
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Stefano Biolchini
editore